La poesia del dissenso, dell’indignazione, dell’interazione col reale, della critica sociale e della civiltà come inderogabile coniugazione e armonizzazione di progresso/sviluppo e società esiste. Pro/Testo ne è l’evidenza.
Pro/Testo (a cura di Luca Ariano e Luca Paci), Fara Editore, Rimini, 2009 (Presentazione di Luca Paci – Introduzione di Mimmo Cangiano)
Riportiamo la Presentazione di Luca Paci
Mina & semina
Gli ultimi anni hanno visto e lasciato, in campo di poesia, il deserto. Intimismo solipsistico, lagne egocentriche, conati di misticismo vomitato e urlato, liricismo sguaiato e latrato.
A mancare soprattutto era la consapevolezza di vivere una comunità. La crassa materialità denunciata dal martire della spiaggia ostiense assisa come un cancro nelle nostre viscere. La politica e la cronaca ignorate perché reputate impoetiche. L’intolleranza mascherata dalla tolleranza del pensiero unico.
E tuttavia dalle retrovie si organizzava la resistenza prima discreta e poi massiccia come l’onda che spazza la precedente spazzatura.
Oggi i poeti più interessanti reagiscono a questa desertificazione individualmente ma con una comunità d’intenti che ha del magico.
La poesia esce dalla confortevole domesticità assopita («Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case…») e s’incontra-scontra con gli eventi, li narra, giudica e pregiudica, mina e semina. Perché il poeta è distruttore e coltivatore, non ha paura di parlare di mondo, di giustizia, di guerra, di fame, di razzismo, d’inquinamento, di berlusconi. Il movimento di distruzione è inutile se non è accompagnato da quello della semina. Si dissoda la terra per seminare.
Allora il Protesto (indictment) – in origine constatazione formale del mancato pagamento effettuata da un pubblico ufficiale – diviene testo a favore, testimonianza alla collaborazione, apertura alla condivisione. Che è poi la sola strategia contro questa ‘modernità liquida’ capace di fagocitare le nostre armi per poi ripuntarcele contro.
Il poeta ha passato la fase allucinatoria del narcisismo per la consapevolezza di un lavoro poETICO che deve necessariamente implicare ‘la comunità che viene’. La comunità di una comunanza chiazzata, impura, negoziata e sempre messa in discussione. Il contrario della pax romana che questo Potere è riuscito a farci comprare rata dopo rata, réclame dopo réclame.
Poetica del dissenso
avrai un’infinita capacità di obbedire
e un’infinita capacità di ribellarti
(PPP)
E allora il mio e il tuo compito, lettore, è quello di dissentire, creare le condizioni di presenza di una vera pluralità. Una pluralità che prende consapevolezza del suo potere di poetare come urgenza del linguaggio.
Il dissenso è un atteggiamento fondamentale che ci permette di percepire il mondo sotto prospettive inedite e diverse. Dissentire, ovvero sentire diversamente. Quando parlo di atteggiamento mi riferisco innanzitutto alla condizione esistenziale del dissenso nelle sue molteplici forme che vanno dall’e(sc)lusione alla deviazione, all’eterodossia, al contrasto ed alla critica. Il luogo naturale del dissenso è il margine.
L’e-marginato ha la ragione del dissenso nel quale le forme sopra menzionate trovano rappresentazione. Chi dissente, infatti, ha il problema di cercare un linguaggio che lo rappresenti e lo riscatti, vuole esprimere linguisticamente una differenza, marcare una distanza. Nella pratica del dissenso, quindi, sperimentazione ed emancipazione dalla lingua ricevuta sono elementi centrali. In questo senso il gioco della sperimentazione, unito a quello dell’emancipazione dalla parola ereditata e fossilizzata, diventano essenziali per ri-pensare la pratica poieticopoetica in termini innovativi. La poesia diviene in questo senso programma di una pratica radicalmente sperimentale orientata verso la costruzione di nuove potenzialità linguistiche che letteralmente danno voce alle cose. Tuttavia la pratica poetica non agisce in vacuo. La parola non è inerte, astratta, ma è legata alla vita, alla storia ed ha un’anima propria. Sperimentalismo ed emancipazione si devono confrontare con l’autonomia di un linguaggio già formato. In questa difficile differenziazione si gioca la logica eversiva del dissentire che diviene vasto e radicale progetto di cambiamento della lingua o se vogliamo della (ri)costruzione degli oggetti e dei concetti.
AnarchicA è il collettivo che ha permesso
questa pubblicazione, www.anarchica.net
LUCA ARIANO
Dopo secche stagioni
Dopo secche stagioni
che spaccano il selciato
e svuotano pagliai,
s’è fatto alto il granturco
nei campi:
vorrei saggiare adesso
il sapore d’oro e non attendere
il prossimo ottobre
per spigolare accanto a quel vecchio
col grande cappello di paglia
o a quella nonna in bicicletta
col nipotino alla sella.
Volare sulle cime d’una valle
e poi precipitare tra le rovine
di una rocca: tra le sue pietre
e sterpi accendere un fuoco
per scorgere nuove orme;
poi lanciarsi in un mare di pensieri
lasciando veleggiare i capelli
nei momenti,
prima che la buriàna di un nuovo
temporale, spazzi gli arbusti.
MARCO BINI
10 settembre 2001
È papà che attende al varco, agli sgoccioli delle vacanze
perché «ormai si torna a scuola, e ancora non c’è niente
che tu abbia fatto, guarda che il futuro i tuoi comodi non li aspetta!»
e lo dice con la tv sul notiziario, che ogni giorno sembra
sempre più precipitare la situazione, «ma tu non senti fretta?»,
dando sulla voce al mezzobusto non poi così in ansia se fibrillano
i mercati.
12 settembre 2001
Sei riuscito tutto a un tratto a metterti alle spalle i volti
corrucciati l’audio che va e viene la tensione della diretta
mentre godi della quiete tardo estiva e fili in bicicletta.
Ti sbilancia un refolo di vento che solleva e rimescola
polvere scontrini accartocciati e mozziconi di sigaretta.
Pensi alla faccenda della farfalla in volo laggiù in Giappone,
sogghigni e credi che sia un’onda d’urto che viene da lontano.
DOME BULFARO
Dentatura di pantegana o quasi
(da leggere con una cosa in bocca)
Né naso per i tartufi, viados docciati al lume.
Mi sdraio sulla strada sodo, alla Polis verrà fame!
Nella nebbia bubbonica qualche mozzico ti fotte.
È buona la mia carne, talvolta anch’io ne approfitto
Se è poesia, quella spellarla, dallo sculettamento
dei tunnel metropolitani. Proporci San Deretano
L’artrosi del Pirellone, la geriatria per le strade
su bici con giù la pata: Casa Chiusa la mia City
Di tre/quarti o la facciata e… le fognature del Duomo?
Il Naviglio ci trascina in busecche di cartolina
Vuoi un pene, un polmone, un rene? Noi in lei, tra pianti di cuore
sss arriva colui che poeta ssst! Tutti; scopa; di; saggina!
NATALIA CASTALDI
La rivoluzione del poeta
Cos’altro ancora la mia parola
se non arma
coltello e lama
penna iniettata di veleno,
di sudore?
Contro lo sciacallaggio dell’ottimismo
nella cecità mediale
compito e dovere
portare letizia e rivolta
carezza e scompiglio
nel torpore.
Potenza d’un petalo
purpureo di papavero:
oppio alle mie vene
ed alle papille miele d’acacia,
rompi i silenzi dei tormenti
e delle nebbie del giorno ingrato,
di fatiche operaie
raccogli il sangue nelle mie penne.
ENRICO CERQUIGLINI
Dalle piazze l’afrore entra nelle case chiuse per non cedere all’aria
il ronzio sgraziato di liti al tempo della crisi, di latte acido e oscillazioni
dell’umore e dei fondi pensione. Dalle piazze avanza per vicoli
e capillari diventando voce non filtrata, non stirata e felpata, quasi
reale radice d’un pensiero primo. Intagliatori di santi, presidenti
dismessi, cadaveri imbellettati e illividiti, bolliti nei succhi gastrici,
mignottocrati e lacchè, zoccole abusive in pubblici esercizi strillano
posizioni di trasparenza appestata e rubano l’acqua, il sangue, il lavoro,
masturbandosi con la parola libertà in caratteri cubitali, sorreggendo
bolsi banchieri imbottiti di carta straccia e derivati, minacciano
sacramentando polizia da infiltrare nei pensieri, resuscitano algidi
fascisti con spranghe avvolte nelle bandiere, e reclamano punizioni
per le teste ch’han macchiato di sangue il sacro simbolo del paese.
Gli sciacalli di ieri, oggi conigli incarogniti, declamano ricette
e dettano linee e frattali, sudano indignazione per norme fino a ieri
lodate. Tutti dispensano consigli e sanno come fare, tutti surfisti
che non hanno mai imparato a nuotare, tutti pronti a vendere bolle
di pensiero sottovuoto, tutti burattinai saggiamente disposti a dare
licenze di liceità e benedizioni. Tutti insieme, gli sciacalli di oggi,
gli sciacalli di ieri, difendono il cadavere per garantirsi un pasto
comune: invitano a volte nuovi ospiti dal marcio fiato al banchetto
liberista, tanto di cadaveri si aprono allevamenti in ogni dove.
Ma dall’afrore canagliesco della piazza… ma dalle zazzere rasta…
ma dagli occhietti trasparenti dei cani… ma dai passi verso il lavoro…
ma dalle braccia levate… ma dalle periferie squallide e sfregiate…
ma dalle fabbriche in dismissione… ma dalle cene imbarazzanti…
Saranno gli obici del novantotto o la retorica di un carnaio chiamato
vittoria o le bastonature in nero o i più sottili ritrovati del consenso
a sfiancare i cavalli, a domare gli ulivi, a massacrare sogni e futuro?
Sarà l’aurea vigliaccheria di vecchi perversi a dettare gli impulsi
in una specie di conferenza del male? Un filo dì erba buca il cemento
e il coniglio lo guarda stupito, ha fame ma non riesce a mangiarlo.
CARMINE DE FALCO
Ad Alessandro.
Sia cosa che.
Noi nutriti con frutti
beccati, parte a parte,
dolcemente per ventri
distratti, abbiamo appreso
che da adulto rivolti
la frittata di peso
guardandoli seduti
i rivoluzionari
coinvolti nelle lotte
grattarsi il naso ignari
nei posti di potere,
da finestre-tv,
senza saper dire se s’invidiava
un tempo che non avevamo avuto
o l’ora lor che spemevamo nostra.
Nelle stanzette superimpegnate
a ber tristi variazioni sul tema
ritrito, ad additare dall’alto
generazioni inutili, osservare
la degenerazione prender forma
forse solo a nascondere una resa
fonda? Assuefatti alle facilità
abbiamo poi imparato a consumare
acquisiti in modalità dal vivo
su quaderni dorati
con penne soft e innovativi grip.
D’andare indenni illusi
come in un carnevale a fare il divo
e senza difficoltà a comandare,
rivestire ruoli semplicemente
noi che non cerchiamo l’integrità
studiando organigrammi
americani ed immaginandoci
vicedirettori d’inesistenti
reparti. Abbiam disciolto
scelte in medicinali
analgesici il sesso
in un rapporto anale ricco
di vaselina. Senza sangue e battaglie
per piccoli pensieri inconsistenti
conquistare notti più lunghe nelle
discoteche, il diritto di fumare
in casa e di scoparci
con comodità, gli artigli affilati
per rivendicare la libagione
vegetariana, perché succulenta
la carne ci fa schifo,
rimando a un rito cancellato. La
colpa non è pensar di non avere
colpe, ma di non avere voluto
gravarsi della altrui
formandoci innocenti,
in deliri d’amnesia, diluiti
desideri, i contraccolpi, le angosce
in agnosia per star bene. Ridotti
microstagni, piccole truffe allo
Stato e le scelte docili che liquidano
paure e economato. Liquefatti
i desideri son meno pesanti.
È di chi il mondo prima
ancora che sia nostro? Ereditieri
senza regno pacifisti bloccati
ad osservare lo spazio che rantola
tra una crisi finanziaria e una guerra
democratica. Impotenti tra una
mattanza ed un no sommesso, l’assetto
antisommossa delle
strade che cavalchiamo
come gamberetti. È dalle cose
piccole che si costruisce, ma senza
ricominciare non si cambia mai
niente. La slitta è immota per dire
che i trenini non ci sono più, mentre
ancora egoesercito
il diritto borghese
d’espressione, vi scrivo
di uccidere il fratello
maggiore, troppo preso a soppesare
nel suo angolino, per diventare
il padre, persi dietro
stupidi narcisismi e solipsismi
della poesia per recitare in feste
di paese. Ma spunti dalle ceneri
di sto tessuto sociale distrutto
parresia
SALVATORE DELLA CAPA
Ottobre e la polvere
la continenza dei fumi.
Ah Bologna, questo freddo
ti pulisce le arterie
nasconde i mali nei baveri
lungo l’odore di caldarroste.
La stazione, il grigio del cielo
nei palazzi, la pensione Marconi
dove dormisti bambino.
Mani enormi cercano
case negli angoli, nei timori
scuri delle insegne, una noia
compatta di lacca e cipria
le nasconde e i tacchi smorzati
sul celophan di rose in giro
fino a tarda notte. Bologna
nell’insonnia dei bicchieri, dei bivacchi
nelle piazze che nulla sanno
nelle autoradio a pieni watt
che non sentono alle spalle
il nulla che li vive
CHIARA DE LUCA
Mr. Tambourine Man
Poi fammi scomparire tra gli anelli
di fumo della mente,
giù nelle brumose rovine del tempo,
lontano dalle foglie gelate…
Sì, danzare sotto il cielo diamante
con una mano che libera fluttua
profilata dal mare, accerchiata
dalla sabbia del circo…
(Bob Dylan)
spezzare cadente il corso delle stelle
ai capelli di una coda di cometa risalire
fin dove si dissolvono i sospiri degli spettri
per lambire le lingue ardenti dei pianeti,
scivolare tra le pieghe dell’abito del tempo
scostare le valve bluastre della luna
per mordere la perla dura della gioia
precipitare lento di meteora inesplosa
Dal ciglio sottilissimo tendermi a guardare
nell’ingordo ventre del cratere
lasciarci scivolare una parola sola
che altri brandiranno nel capire
memoria galleggia dove l’aria
gravita l’attesa dell’umano
nell’autunno privato quando il vento
[…]
*
Stupita mi ritrovo adesso che dissolvi
confusa comparsa dell’amore
spossata ripongo le mie controfigure
senza più doverti intrattenere
recitando d’essere normale,
tardi mi alzo fatta di scrittura,
non m’invento più prima di uscire
per l’appuntamento con il sole
ogni trucco è svestito con gli abiti di scena,
sul volto ho un sorriso solamente quando è vero.
giugno forse 2008
FABIO DONALISIO
and when I fell on the floor
I drank more
confesso che ho bevuto
e per la maggior parte
mi sono piaciuto
del resto è spazio:
due parti d’artificio una di vuoto
occasionalmente, vomito
servito freddo e ben straziato
una parola
fottuto
***
rimango fermo
lo sguardo mesto appoggiato
sul generale dissesto (non smette, l’inverno)
e il mondo dice non sono stato io
non ci sono mai arrivato
il resto c’è e fa male
come tutte le cose normali borghesi maiale
ciò detto, piango
così inutilmente palesi, i funerali
così tersi
(prove di immobilità)
fingi quel treno infermo
nella bassa
credi in qualcosa che passa (stento)
e avrai ipotesi (protesi)
di me
avrai spento quel che c’è
MATTEO FANTUZZI
da Kobarid, Raffaelli 2008
Aspetto davanti alla stazione di Bologna
un mio amico residente nel bresciano
e che non vedo ormai da tempo.
Non tutti i viaggiatori sanno che lì
c’è un orologio rotto: alcuni modificano
il proprio, mentre altri si rivolgono
agli addetti chiedendo spiegazioni,
lamentando il disservizio.
E per certuni quella lapide è patetica,
porta tristezza alla mattina presto a questi
che si recano al lavoro. Gradirebbero piuttosto
un cartellone che la sostituisca,
qualcosa d’esplosivo, una pubblicità di sconti
eccezionali, di prezzi bomba, qualcosa
d’inimmaginabile, che colpisca le coscienze,
che sui passanti abbia un effetto devastante.
FABIO FRANZIN
Non è più l’umano che pensa il mondo. Oggi è l’inumano
che ci pensa (…) per infiltrazione diretta di un
pensiero virale, contaminatore e virtuale, inumano.
(Jean Baudrillard)
Povere statue. Mai state scolpite
mai state toccate da arte o scalpello
scaricate dalla stiva sull’asfalto
bollente dell’estate stese e per le
storte pose degli arti derise. Statue
del gelo nell’algore che ci avvolge.
Impresse nel display di qualche
telefonino quale esotica immagine
di viaggio da mostrare ai mostri amici
le angurie fresche a fette nei tavoli
il ghiaccio nei cocktail a cubetti
quel ghiaccio triturato dai sorrisi.
Il 14 luglio 2007, nell’area di servizio Bazzera, a Mestre, da un camion tedesco che trasportava angurie, furono estratti i corpi congelati di tre clandestini iracheni. I giornali raccontarono le risa divertite dei turisti di passaggio, le foto ricordo fatte coi telefonini.
MARCO GIOVENALE
finché ci sono loro, in piedi,
che riombreggiano in inglese
sui blocchi sui Fabriano
i semiarchi (i Borromini)
nel merito delle unità
metriche di marmo delle
lesene ai portici del chiostro,
ha senso se affiora il fatto
che non tutto è visibile, come
che non tutto il visibile è detto.
così dà una sua parola – intera –
la lacuna, ogni volta prima
LORENZO MARI
Postura VII (Epilogo)
(Si guarda intorno, nel deserto che già chiamano
pace. Guarda la costruzione del Bene.)
Epaminonda non ha sentito della fuga da Tebe
degli alti generali. Non ha prenotato un posto
sull’aereo per l’Argentina. Non ha affittato una casa
in collina, non ha cercato il trafficone specializzato
in passaporti, non è andato a cena con l’amante del magistrato
e con la moglie del commissario, non ha scritto
articoli sui giornali a favore dell’amnistia, non ha fatto
comparsate
nei talk shows sottoponendosi a giochi disumani,
non ha raccontato come si cucina la triglia,
non ha raccontato barzellette infami ai suoi ex capi.
Cadrà anche lui –
unica differenza, la divisa –
nella battaglia.
Il suo compianto di padre, scritto nel ricordo,
lo strascinare del corpo dalla faccia azzurra
di asfissia e di pianto – quale poesia,
in questo ritorno? – l’offerta del corpo
sull’altare immaginario del ponte tronco
(implacabile lo zoom sulle mani affusolate,
adatte alla scrittura e al pianoforte, e sui piedi gonfi)
il suo cammino difficile sul campo minato
come segnali di un tempo che ritorna
avrebbero fatto bene.
Invece Epaminonda – testardo, muto
e conservatore, petto fiero
e ginocchia diritte!
anche se con la faccia da pagliaccio! –
è rimasto, nel fango, le ossa rotte,
a Tebe.
FARAÒN METEOSÈS
Serpentario♦
A José Bové
Strisci a ridosso del fosso
come cobra zebrato con gli occhiali da sole,
coi sonagli dei byte
assottigliata nei filtri della Rete,
con gli arti pendattili del pirata telematico
del tutto scomparsa allo sfondo della tela
nelle radiazioni termiche del pittore metafisico
e lasci di sasso la Stella Rossa
fra Capricorno e Scorpione e i Sagittaridi in volo,
ridotti all’osso e alla pacca
sulla spalla e la cervice del bombardiere
precipitato sulla puleggia
del tuo condilo occipitale, femminile cerniera
che chiude il solco del dente
del crotalo canilicolato, secreto digerente
di un veleno esfoliante
che picchietta la ghiandola,
sul pelo incarnato nel tuo segreto
placcato da squame nella tua formula d’incognita
di grado secondo
che fa scudo al tuo cranio,
al tuo fortilizio corneo e cutaneo
dalla fessura di pietra calcarea e granitica
in cui due atri pulsano soltanto di un cuore
e l’aria trapassa da un solo ventricolo
Biscia che sguisci dal viluppo infuocato
del rovo del Sinai
come la verga nerboruta sul groppone di Jannes
fuori dallo scempio del fariseo presente nel tempio
risorgi, dall’acribia dello scriba ad esempio,
contorta nella catarsi del muco, dell’adipe e il sebo
con la testa pestata dal piede puzzolente
di quella porca di Eva
sotto la foglia di fico e dal taschino villoso
in mezzo alle gambe di Adamo
azzannando sulle carni di ratti e di insetti
additando all’indice Mibtel come ultimo
il verme della mela di Guglielmo Tell
nel pollice di Dow Jones, i 26 sandwich di Mac Donald
negli occhi dei Nikkei della borsa in corsa
sui raccordi anulari
verso la Fattoria Globale
coltivata tutta a pera d’eroina filosofica dai maiali di Orwell
mordila tu, alla carotide, la carota macrobiotica
sottoposta ai test
alla giugulare del Gran Tutore dell’antitrust
e sbuca dallo Stretto della Manica come l’asso di Blair
come missile intelligente dall’ano spanato di Bush
sul collo del tallone di Achille, sul muscolo
del braccio tennistico di Patroclo
per un’altra guerra di TROIA,
per un’altra coppa di Wimbledon
fra le nebbie di Avalon
Rettile irascibile della vendetta di Ettore
nel pianto a dirotto di un Priamo
sfrattato a sangue freddo
dalle truppe miliziane del Terrore del Termidoro
col siero antivipera,
con la baionetta ovovivipara e infanticida
sul catorcio carrozzato dell’Era corrente
sui carri bestiame delle vacche magre
su letame, bitume e catrame dell’abitudine
Pitone che scivoli dal ritto pennone
della parata del nazionalista e dei volta bandiera
dei Dolce e Gabbana in sfilata col catto-mafioso
… afferragli stretta la tenia degl’interstizi,
nelle zaffate di tedio
della carogna della sua cagna marcita nell’ignominia,
la tarma mezzana dei costumi rosicati
della battona e battitrice libera
su sgranato rosario come Serpente che si fronteggia
nell’aula di Ippocrate
sotto la pira e la pirotecnia accese all’eretico
Aspide nella sottana della regina Cleopatra
nella collera di Ottaviano
per mano di suocera e nuora
e tradimento di Jago e Logo nel Sito
in lotta fra i Titani e gli Dèi del mio Tartaro
e grosso salgemma e canchero e cancro del Tropico,
Agnello d’oro e capro espiatorio
dell’entropia della MALEDIZIONE:
tremarella temibile da febbre da fieno
repellente ruina e sterco dell’orco mangia bambini
nell’assuefazione all’odio
nell’addio all’idioma, nell’afasia della parola,
nell’arco della parabola… per la scossa elettrica
della sommossa rivoluzionaria della miccia malaticcia
dietro lo spartivento e il sismografo
prolifica in un rettilario di vetro… la perversità del mio
verso.
(già edita nell’antologia Kermesse, Arpanet, 2003; e nella raccolta poetica Psicofantaossessioni, LietoColle, 2007)
SIMONE MOLINAROLI
Il mondo è morto
Il Mondo è Morto, non senti l’odore?
Si sente odore d’incenso e idrocarburi,
di eroina e trasmissioni elettorali.
Non senti il suono continuo
del calcolatore bizzarro che sancisce
la Sua Morte?
Non senti il canto degli Sterminati?
I traccianti nel cielo non sono
pirotecnie di compleanno
e nemmeno naufraghi in gommone
che segnalano disperati la posizione.
In televisione non ne danno notizia.
Guardie armate sparano
colpi d’avvertimento verso il cielo
per arrestare la marcia dei curiosi
e spesso un Tedesco vestito da Donna
parla della necessità del confronto,
ma necessariamente, nella Verità.
Il Mondo è Morto, non senti l’odore?
Non senti le trombe, gli sciacalli, gli avvoltoi
il buonumore raro del barista
che ti parla di un futuro improbabile
ti passa un bicchiere avvelenato
da un sorriso fuori tempo?
(Le profezie, la termodinamica, il buonsenso, la noia,
pronosticano in tempi diversi lo stesso evento
peraltro già avvenuto…)
FABIO ORECCHINI
III. RSU
Rifiuti Solidi Urbani anche i soliti discorsi
riverso nel tuo incubo in vita
pasticche, sieri, bromici preparati
liquidi che ingurgiti vergogna
che sversi nella manica della vestaglia.
Morfina nel latte scremature di noi,
i ricordi sapranno lenire gli ultimi giorni ?
Quali ricordi. Gesti residui. Anch’essi inevitabilmente
contaminati.
LUCA PACI
Visioni dalla gabbia
I
Ritorna alla cappa e alla durindarda,
al mantello smangiato dalle tarme della lana.
Ritorna al catino da barbiere che usò per elmo
o coppa o usbergo nelle circostanze estreme.
Tutto è utile nel pericolo estremo.
Dalle prese di posizione, dall’assurda
istigazione d’un argomento
per vincerlo non importa se
si perde l’anima nel processo.
II
À rebour nella storia della memoria,
anch’essa copia della memoria
d’un altro cavaliere letto di sfuggita
durante lo sfogliar del tempo
nella biblioteca di fronte
all’Hotel “Notte dei cristallli”.
Un grido, anch’esso prestato
dall’originale copia del grido
campionato per l’occasione
in cui s’attesta con certificato
stampato e autenticato che qui
si tratta appunto dell’originale
Copia, mentre l’esemplare
copiato è stato perduto.
III
Questo il pensiero di Alonso
Chisciano, prima che il barlume
della coscienza gli sconsigliasse
l’assurda mossa del rinsavimento
ma era tardi ormai. Il lettore, mio
ipocrita lettore aveva già ipotecato
la fama assurda del cavaliere
dalla trista figura.
IV
Eppur si muove, eppure.
Il ritorno dell’uguale,
l’eterno ritorno del presente.
Riproporsi degli eventi
in una gabbia costante
d’immedesimazioni.
Liquefarsi del medesimo,
perdersi dell’uguale.
V
Riproporsi a guise diverse
ma in sostanza sempre identiche.
Questo è il segreto mistico,
semplice ed orrendo del cosmo:
una sola ineccepibile, ineguagliabile,
suprema, superna legge. Il Medesimo.
E tutto questo affaticarsi degli elementi,
dal mitocondrio all’uomo passando
le disparate variazioni d’esistenza,
tutto questo un alibi grossolano,
tentativo fallito in partenza
di contraddire la regola aurea
col suo corollario necessario:
il fatalismo. Non leggere,
non pensare questo pensiero
inospitale che contraddice
la natura libera dell’umano.
VI
All’origine una copia.
Un pensiero già pensato,
uno spurio inaccettabile pensiero.
Meglio tutto, meglio il Caso,
meglio Dio o il Diavolo,
meglio l’essere, meglio Parmenide
o un Platone a scelta.
Meglio tutto della Copia.
Chi è copiato? Chi l’originale?
la Copia.
Sao Ke Kelle Terre Per Kelli Fini.
Eppure lì all’alba del linguaggio
col lucore dell’alba che porta
l’ingannevole promessa d’un futuro?
(14 luglio 2006)
MASSIMO PALME
Il fallace effetto Fallaci
(poesia per una scommessa ippica)
Mi stupisco ancora, ancora e non dovrei
ma niente da fare, ancora
mi stupisco nell’essere tutto come sempre io
che entro nella mia scommessa preferita, sono lì
a bramare l’accoppiatina dai dai che porto a casa un disco di Gaber
perdo.
Avessi vinto non sarebbe cambiato,
cioè qui adesso ascolterei Gaber e invece ascolto Jeff Buckley
metto sul fuoco le patate
intriso ancora dei miei sogni
del lacrimarsi al giornaledell’infinito sentirsi arpeggiarsi
di poesie scritte sui morti sui vivi sui miserabilmente
incoscientemente
e ancora mi stupisco, e non dovrei
la morte sfiora i miei giorni
a volte diretta
a volte banale
non lo so
parlando con qualcuno
per caso
del tutto banale, del tutto
la mattina, con un’amica, prendendo il caffè
e tu vendi i morti.
Un articolo, un libro
adesso un CD
uno sporco CD con la tua faccia ricamata
tu e tuoi soldi
regina dei dogmi
indecente persecutrice
di verità che non hai
che non esistono.
Vendi i morti a quelli che sperano
a quelli che si attaccano ai cavalli
ai sentimenti
più umani
troppo, troppo umani
e il tuo effetto dirompe
fallace
dirompe come le bombe di cui sei portavoce
porta croce
portasigarette.
Dovresti morire in silenzio
conservare la dignità di quel silenzio
uscire di scena
come me da questa sala, le mani nelle tasche
ovviamente
vuote.
ELEONORA PINZUTI
Atto terzo
Lo stress della “minoranza”.
In particolare mostra come lo sviluppo psicologico
della maggior parte delle persone omosessuali
sia segnato da una dimensione di stress continuativo,
macro e micro traumatico, conseguenza di ambienti
ostili o indifferenti,
episodi di stigmatizzazione, casi di violenza.
Questo fenomeno
va sotto il nome di minority stress.
(Vittorio Lingiardi, Citizen gay)
More Andersen
Altro per il punto fissato.
E allora conquisto con tutta la forza
un soldatino di stagno
a plot della novella:
ecco il premio, bella.
Lo lavo, lo bagno e lo pulisco.
Poi lo fisso sul comodino,
fermo sulla suola.
Il mio, dopo tanto sforzo,
ha, però, una gamba sola.
*
Non avrei combattutto,
Don Chisciotta in canuto apparire,
una guerra non mia
non mi avessero costretto
(come sui monti, fare la mia parte partigiana).
Annodo sempre, ogni mattina,
il fazzoletto rosso.
Lo porto stretto intorno al collo,
ché non si veda il taglio.
E aspetto.
*
Non ho più dracme nelle pieghe
dei calzoni o di sottana
con cui pagar, semmai, Caronte.
La lana non protegge, si assottiglia,
e la maschera ormai non regge.
Ho giocato per tutto il tempo
un ruolo fisso,
deciso già nel canovaccio.
Aver saputo prima la questione
non avrei sprecato tanto fiato
nel gioco del concione.
Avrei scelto il teatro
(sempre aperto)
già come missione.
ROSSELLA RENZI
Intero devo contenere il silenzio
nelle mani il verso dei rapaci
che si voltano con teste da uomo.
Il lamento del mendicante
implora di partire
mio piccolo animale
sei il merlo nero che mi fissa
nell’ora muta della sete.
***
Il tuo suono tra ghiaccio e deserto
nel piede sudicio che solca la terra,
ha luce di casa e di strada l’odore.
Sei magra e dannata come una bestia
senza dimora, conserva la polvere
e le note della tua terra
per finire la danza
sull’orlo della piazza.
ALESSANDRO SERI
Montecactus
(ipotetica futura sommossa underealista in una qualsiasi
città italiana dopo decenni di governi ladri)
E dopo l’accidia la deserta Italia
Rubata di sé stessa dai mostri faccendieri
scoprì lo scheletro sotto la coperta
e non bastarono più i panorami e l’arte
Giorgio Balzani per anni sindaco dormiente
fu scapestrato fuori dal terrazzo
dalla sommossa undereale in pieno scazzo
con la poltrona ancora sotto il culo
Nessuno fino allora ci credeva
che a Montecactus giungesse primavera
finché non si presentò l’orda inesistente
d’una rivolta di cui non si sa niente.
TITO TRUGLIA
Avviso di rivoluzione
n. 1
alzate
le vele al mondo giovane mondo
che i tempi stanno per cambiare
indossate scarpe pesanti e ben strette
che nessun vento possa spezzare le vostre radici,
che nessun vuoto possa scuotere la pianta
che coltivate,
che la pioggia non possa raffreddare
il calore del corpo
e dal corpo non scorra
inutilmente la fine…
n. 2
volgete
gli occhi verso l’orizzonte,
tracciate sentieri verso il sole,
danzate nel verde, mirate al cielo,
coi piedi battendo, forse,
ci riusciremo
DALE ZACCARIA
Guerra
Lei camminerà di nuovo con orgoglio
su cieli di tenero sangue
portando sulle spalle l’azzurro
silenzio dei figli.
Lei avrà nelle mani le linee
di un tempo morale
e i capelli raccolti come pensieri
spinati in un foulard di seta.
La terra, ora bruciata di grano
piegata ai suoi seni, gonfi ricordi
di strade che non più si troveranno.
Le case come tanti buchi di certezze
le rallenteranno il passo.
*
Mite borgata romana
all’innocenza,
il tuo sguardo di creatura piena,
storia di tono e di luce
timore antico
visione uguale a sé stessa.
*
Domani, forse
rallenterai la fuga,
perché sarà una buona giornata,
una giornata calda e di sole
per la raccolta dei mandarini.
Grazie Enrico di aver ricordato “Pro/Testo” proprio sul finire d’anno… L’antologia non-antologia è stata una delle poche [ma spesso collettive e moltitudinarie] pubblicazioni di poesia civile che si sono susseguite negli ultimi anni e ha apportato, credo, il suo contributo specifico di parola, impegno e diffusione. Da portare anche negli anni nuovi.
Non per parlarsi addosso, ma per continuare a produrre pro/testi, pro/teste.
Grazie Enrico per aver riprosto Pro/Testo e grazie a Renzo!Ci credevamo molto in questo progetto e ci crediamo ancora e credo che, ognuno, nel suo piccolo,
porti avanti il suo Pro/Testo. La rivista Farepoesia fondata da Tito Truglia della quale sono redattore, è il giusto prosieguo del nostro modo di intendere la poesia e non solo
Un caro saluto
Credo che sia necessario che la voce di chi dissente e lo fa con gli strumenti della poesia e dell’impegno personale debba avere il suo spazio. Pro/testo, Vicino alle nubi, Calpestare l’oblio sono segnali forti che non possono essere ignorati e c’è da aggiungere che i progetti di cui parla Luca sono necessari in questa epoca oscurantista e intollerante con l’intelligenza.
Enrico